Anzi, lo spirito di ricerca di Gigi Piana è quello dell’esploratore nel senso più genuino del termine, che non sa ciò che troverà, ed è disposto a ritornare dal suo viaggio con qualche interrogativo in più. I suoi lavori impattano sul pubblico, chiamato in causa in veste di attore più che di spettatore passivo, e l’artista-esploratore si apre alle eventualità sempre inedite e imprevedibili dell’atto performativo che si gioca nel qui e ora dell’interazione tra artista e spettatori, fra spettatori e opere, fra spettatori e spettatori.
Contrariamente a quanto si immagina, l’identità non è sempre stata al centro né del dibattito politico e neppure delle scienze sociali. Il concetto desta sempre maggior interesse a partire dagli anni ‘60-’70 del XX secolo, quando iniziano a sfumare le interpretazioni universalistiche della societá. Successivamente, lavori come “Lo scontro di civiltá” di S.P. Huntington, soprattutto dopo gli eventi del’11 Settembre, hanno reso l’idenitá un concetto sempre piú di uso comune.
L’antropologia culturala stessa con le sue etnografie ha contribuito a creare una riduttiva immagine delle culture/identità come sfere chiuse, separate e perfette, ma ha poi avviato un’analisi critica del concetto di identitá oltre che una profonda riflessione sul modo di rappresentarle. Un contributo interessante per la sua capacità di sintesi e completezza è l’opera dell’antropologo italiano F. Remotti, autore del libro ”Ossessione identitaria” (Laterza, 2010) da cui prenderemo le mosse per continuare nella nostra riflessione.
La prima prospettiva da analizzare – e la prima che le scienze sociali e l’antropologia culturale hanno avvallato spesso in modo acritico – è quella che possiamo definire una prospettiva essenzialista. Secondo questa visione, l’identità è garantita dall’esistenza preventiva della struttura e dei confini degli oggetti o degli enti: struttura e confini sono già dati, la cifra costitutiva dell’identità è un atto di separazione di sostanze differenti. Separare per identificare, separare per ricercare la sostanza primigenia, la purezza. Separare per individuare le “impurità” ed eliminarle.
In questa prospettiva, l’identità, quella pensata come sostanziale, non può essere oggetto di negoziazione e dibattito, vuole essere a tutti i costi difesa, giustificando anche l’uso della violenza. Tutto ciò che proviene da fuori rappresenta dunque una minaccia di “alterazione”. Secondo quest’ottica non c’è molta differenza tra razzismo e identitarismo. I due concetti, uno rappresentativo dei discorsi filosofici e pseudoscientifici a partire dall’Ottocento, l’altro più recente, si appellano entrambi a una sostanza, biologica nel primo caso, storica o culturale nel secondo. Il culturalismo, che sembra il termine più attuale per descrivere quest’ultimo orientamento, corrisponde allo stesso atteggiamento intellettuale dei razzismi, che si riversa nelle pratiche di esclusione: si può negare le razze ed essere razzisti. Il politically correct odierno ci obbliga ad evitare certe parole, ma non elimina né i pensieri né i comportamenti, anzi a volte li rende ancora più difficili da individuare. Quello a cui assistiamo oggi è un “neorazzismo culturale”, laddove il termine “cultura” e “diversità culturale” sostituisce il termine “razza”.
Il discorso sull’identità è sempre frutto di rappresentazione, e in quanto tale, frutto di una operazione di riduzione, spesso mortificante rispetto al mutamento e alle possibilità alternative. Definendo un’identità, l’alterità viene cacciata all’esterno, fuori dal confine, spesso in modo violento, oltre che arbitrario, poiché l’identità è qualcosa – un io, un noi – che viene reso riconoscibile mediante la delimitazione di confini.
Quali sono le conseguenze di questa polarizzazione identità-alterità, che non prevede sincretismi, flussi, trasformazioni e integrazioni?
Ad un estremo si verifica la mummificazione dell’identità, un tentativo di sottrarsi dallo scorrere del tempo e pertanto dal divenire, all’estremo opposto una dissoluzione nell’alterità. L’uomo si muove tra questi estremi, oscillando di volta in volta tra esigenze di chiusura e apertura.
E se assumessimo un altro punto di vista? Se supponiamo che l’identità non inerisce all’essenza di un oggetto, ma dipende invece dalle nostre decisioni, potremo allora adottare una visione di tipo convenzionalistico. In questo senso, i confini corrono laddove decidiamo di tracciarli.
Di fatto, le possibilità di creare connessioni trasgressive che attraversano i confini diminuiscono la credibilità delle costruzioni dell’identità, ricordandoci appunto il suo carattere convenzionalistico. E ciò accade per la sostanziale ambivalenza del confine, che mentre separa, mette in relazione. L’etimo stesso della parola è chiaro: cum-finis, avere in comune un limite; delimitare…ma in comunione con qualcun altro. Oltre le costruzioni di identità, oltre gli s-confinamenti, occorre ancora prendere in considerazione la dimensione del flusso e del mutamento: sotto le strutture non ci sono “sostanze” o “fondamenta”, bensì i flussi, i movimenti, gli spostamenti.
“con_fini di lucro” si articola proprio su due tipologie di lavori al contempo uniti e contigui. Le forme sferiche scelte da Gigi Piana, potrebbero far pensare alla monade, al tuttotondo perfetto dell’identità, rievocando l’immagine spesso utilizzata da gruppi politici e religiosi per definirsi, in contrapposizione e incomunicabilità con gli altri, se non attraverso lo scontro. Ma a ben vedere le sfere di Gigi Piana sono tutt’altro che uniformi, talvolta sostano nella sospensione, talvolta rispecchiano chi le guarda, si compenetrano, veicolano il dubbio di una porosità inattesa.
La seconda tipologia, nei suoi quadri intessuti al tema dell’identità si aggancia quello del confine, della linea di demarcazione. Anche qui lo spiazzamento di confini mobili, fatti di intrecci, passibili di disarticolazione, confini che sconfinano. La possibilità per il pubblico di essere attore e spettatore partecipante, chiamato a scegliere, a decidere dove posizionarsi e a interagire con l’opera, chiama direttamente in causa la necessità di diventare consapevoli delle proprie scelte, esercitando un certo grado di libertà. La consapevolezza del proprio posizionamento è innanzitutto la consapevolezza della finzione (fingere dal latino “plasmare”, “modellare”), nel senso materiale del termine di coscienza della costruzione e produzione di identità e confini, che sono sempre artificiali e soggetti a revisione, mobilità, mutamento, creatività.
La possibilità creativa di ridefinire i confini presuppone un atto di libertà di scelta, eppure spesso il grado di consapevolezza sulla base del quale compiere un atto creativo risulta appannato da rigidità ideologiche e luoghi comuni che possono renderci vittime di quello che da alcuni (Gallissot, Kilani, Rivera) hanno chiamato “imbroglio etnico”. Se a livello teorico la globalizzazione si è posta come ideale, prima di tutto economico e poi culturale, in grado di travalicare o addirittura di abbattere alcuni confini, favorendo il libero scambio e la libera circolazione di beni e persone, nella pratica si assiste ad un crescente bisogno di confinare, marginalizzare, limitare, delimitare, escludere. Nell’era del globale, proliferano i localismi e i discorsi esclusivisti, assumendo della parola con-fine, soltanto il “fine”, spazzando via il “con”.
La disgregazione dei poteri forti (Baumann) insieme con la crisi economica aumenta la necessità di aggrapparsi a ideologie identitarie. Sembra infatti che proprio sui confini, laddove si concretizza la possibilità di un passaggio, di una trasformazione, si accentuano le necessità identitarie. Si pensi al ciclo di vita di un essere umano. Vi sono due momenti di passaggio e trasformazione fondamentali, liminari per eccellenza, che comportano un grande carico di incertezza: la nascita e la morte. Proprio sulla linea di questi due confini estremi ogni società si organizza culturalmente per non lasciare al caso la trasformazione, ritualizzandola. Nei riti della nascita e della morte, di fronte al pericolo dirompente di una disgregazione del corpo individuale e del corpo sociale, i ruoli sociali acquisiscono maggiore importanza, si ridefiniscono, specifiche identità prendono o riprendono forma sui rituali delle soglie (chi presiede alle nascite o alle cerimonie funebri? Chi torna a vestire il ruolo di parente stretto attorno al neonato o al defunto? Come viene riattualizzato un legame di sangue o un vincolo di solidarietà attorno ad una nascita o ad una morte?).
Le opere di Gigi Piana per “con_fini di lucro” sono in grado di porre all’attenzione dello spettatore-attore interrogativi come questi, avendo sempre ben chiara la corrispondenza tra esistenza individuale e esistenza globale, tra corpo individuale e corpo sociale. Tra le righe, la consapevolezza dell’artista di trovarsi su una soglia storica importante, sull’orlo di un cambiamento epocale il cui esito non ci è dato sapere quale sarà, dove la crisi sembra essere la chiave di lettura ormai ridondante del discorso sociale ed economico attuale, quasi a voler distogliere l’attenzione da una decadenza già in atto.
Il visitatore, attraverso le opere di Gigi Piana, ha la possibilità di compiere un viaggio, di oltrepassare soglie e confini, di muoversi tra simboli e convenzioni, di sceglierne o combinarne insieme, di indossare identità o intrecci di identità, di riflettere sulle evocazioni delle installazioni e di riflettersi su alcune di esse, cogliendone forse il carattere sempre composito, fluido e mutevole.
Testo di Aurora Lo Bue ed Elisa Grandi (ramodoro)